La sentenza in commento, resa dalla prima sezione del Tribunale di Milano in materia di responsabilità medica, si segnala per l’importanza delle innumerevoli questioni affrontate in punto di risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, subito da una paziente vittima di una lesione macropermanente e dai suoi prossimi congiunti.

I passaggi maggiormente interessanti e che in questa sede si è deciso di approfondire concernono due profili: il risarcimento del danno patrimoniale “futuro” subito dalla vittima e la scelta di liquidarlo mediante la costituzione di “rendita vitalizia”; la ritenuta risarcibilità del danno parentale non patrimoniale patito da un prossimo congiunto (nel caso di specie, il fratello) ancorchè “non convivente”.

Con riferimento al primo profilo, il Tribunale Milanese, richiamando Cass. 10072/2010, ha dapprima precisato che il danno patrimoniale “futuro” consiste nella “rilevante probabilità di conseguenze pregiudizievolie, in quanto tale, è “immediatamente risarcibile quante volte l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocabilmente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto”. Successivamente, ha concluso per la sussistenza nel caso di specie (che riguardava una grave lesione celebrale da anossia provocata durante l’intervento), di tale voce di danno stabilendo che il rimborso di tutte le spese da sostenersi per l’assistenza futura doveva essere liquidato e corrisposto ai sensi dell’art. 2057 c.c. attraverso la costituzione ad opera dell’ente ospedaliero di una rendita vitalizia (art. 1872 c.c.) a favore del danneggiato.

Proprio nella scelta inusuale di liquidare il risarcimento patrimoniale futuro sotto forma di costituzione di una rendita vitalizia consiste uno dei tratti maggiormente significativi della pronuncia del Tribunale di Milano che, con questa decisione, adottata sulla base della “oggettiva gravità della situazione di BC, (del) carattere permanente del danno e (del)l’impossibilità di stabilire, in modo oggettivo, una durata presumibile della vita dell’attrice”, si è distinta dalla quasi totalità dei Tribunali che in casi analoghi sono normalmente più propensi a condannare il responsabile civile al pagamento del danno patrimoniale futuro capitalizzandolo al momento della sentenza.

Con riferimento al secondo profilo, ossia quello concernente il diritto ad essere risarcito del danno parentale non patrimoniale (morale) a favore dei congiunti non compresi nella “famiglia nucleare”, il Tribunale, ha dapprima chiarito il significato di tale voce di danno. A tal fine ha richiamato l’orientamento della Suprema Corte secondo cui “affinchè ricorra la tipologia del danno per lesione del rapporto parentale è necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti e che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tali da imporre scelte di vita radicalmente diverse (cfr. Cass. 8827/2003 e, più recentemente, Cass. 25729/2014), e ha specificato che “il fatto illecito, (…) dà luogo a danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, quando colpisce soggetti legati da un vincolo parentale stretto, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare nucleare”.

In applicazione dei richiamati principi, e senza negare operatività alla regola secondo cui la convivenza vada intesa “quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali” (Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253; conf. Cass. civ., sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938), il Tribunale ha tuttavia stabilito che il requisito della convivenza debba essere inteso quale “elemento puramente indiziario superabile alla presenza di dati concreti ben più significativi, tutti dimostrati nel caso di specie”.

Coerentemente con le valutazioni espresse, il Giudice ha accordato tale diritto al risarcimento anche ad un fratello della vittima, ancorchè “non convivente”, sul presupposto della ritenuta sussistenza di un fortissimo legame affettivo deducibile da una serie di elementi concreti (nella fattispecie, la circostanza che questi, all’epoca dei fatti, pur risiedendo e lavorando negli Stati dagli Stati Uniti, decideva di tornare in Italia e di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente all’accudimento della sorella, in favore della quale, peraltro, prestava anche l’ufficio di amministratore di sostegno).