Con la sentenza in oggetto, la sezione lavoro della Cassazione torna ad occuparsi di mobbing, confermando la condanna in appello al risarcimento del danno alla salute pronunciata a carico di un superiore gerarchico della vittima e del loro datore di lavoro (nella fattispecie, un Comune).

La vicenda in esame, che riguardava un impiegato pubblico “demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, umiliato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare”, ha fornito alla cassazione un’utile occasione per aggiungere due importanti tasselli per la ricostruzione dell’istituto del mobbing.

Due, in particolare, i passaggi più rilevanti della sentenza.

Nel primo, la Corte conferma la validità dei sette parametri tassativi – “l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni o stili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio – definendo corretto l’uso fattone dal giudice del merito quali linee guida per riconoscere casi di mobbing. Nel secondo, rigetta le doglianze del Comune che chiedeva che fosse scriminata la sua posizione per difetto di imputazione soggettiva.

Proprio con riferimento a questo secondo profilo, la Corte afferma il principio di diritto secondo cui “la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 cod. civ., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo”; ciò neanche nell’ipotesi in cui l’autore della condotta mobbizzante sia, come nel caso di specie, dipendente di un ente pubblico.

La Corte, dunque, non indugia nel riconoscere la responsabilità del Comune in qualità di datore di lavoro, affermando che “la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonchè organo politico, che l’ha comunque tollerata”; una condotta che la Corte definisce “di per sé idonea a integrare la responsabilità in solido”, dovendosi pacificamente escludere che il Comune sia rimasto allo scuro di quanto accadeva nei suoi uffici e fra i suoi dipendenti.