Complicanze da intervento di routine e violazione del consenso informato: Corte d’Appello de L’Aquila condanna Asl abruzzese al risarcimento dei danni

 

La Corte d’Appello de L’Aquila ha completamente riformato una sentenza emessa dal Tribunale di Pescara sul tema della responsabilità medica e della struttura sanitaria, in particolare sul risarcimento del danno causato da “complicanze” in seguito a errato intervento chirurgico e sulla questione connessa del “consenso informato.”

La pronuncia in commento pone spunti di specifico interesse in relazione ad un duplice ordine di questioni: il concetto di “routinarietà”della prestazione sanitaria e la violazione dell’obbligo di acquisizione del consenso informato.

Nella fattispecie in esame i giudici di seconda istanza, in parziale riforma della sentenza di primo grado, hanno ritenuto che, in caso di prestazione professionale medico-chirurgica di “routine”, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, prova liberatoria in questo caso mancante.

Da ciò consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico, non può limitarsi a rilevare l’accertata insorgenza di “complicanze intraoperatorie”, ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l’insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l’insorgenza delle predette complicanze, unitamente all’adeguatezza dei rimedi tecnici adoperati per farvi fronte nel caso concreto.

Sussiste quindi una presunzione di negligenza o imperizia da parte del medico circa le eventuali complicanze scaturite dall’intervento che spetta al professionista superare, dimostrando che le “complicanze” sono state determinate da eventi eccezionali, “imprevedibili ed inevitabili.”

La ratiodi individuare l’onere della prova in capo al medico, nel caso di interventi che comportino rischi di esiti peggiorativi piuttosto bassi, è proprio quella di garantire la massima tutela possibile alla posizione più debole del paziente, colmando così anche le eventuali asimmetrie informative.

Parte appellata sosteneva che tale “routinarietà” potrebbe riconoscersi unicamente in centri di eccellenza o in capo a professionisti specificamente o esclusivamente dediti all’effettuazione di interventi di impianti cocleari, condizioni queste, invece, assenti nel reparto del nosocomio di Pescara dove mancherebbe una esclusiva e specifica competenza in materia.

In realtà la componente di rischio risulta statisticamente trascurabile per quella tipologia di intervento, pertanto, la presunta “conseguenza inevitabile” non può che essere attribuita ad una errata manovra del medico chirurgo, in quanto, un intervento non può definirsi routinarioin base alle condizioni e alla capacità della singola azienda sanitaria, ospedale, equipe medica o singolo medico ma deve essere definito dalla letteratura medica, universalmente valida e riconosciuta.

Qualora nella denegata ipotesi in cui un intervento, rientrante nella tipologia routinaria, non potesse essere considerato tale per le particolari condizioni strutturali e operative, andrebbe prima adeguatamente e puntualmente segnalato al paziente, mediante il consenso informato, “condizione di legittimità dell’atto medico”, fondamento stesso della libertà del trattamento sanitario.

La Corte d’Appello ha quindi sovvertito la sentenza di primo grado nei suoi profili portanti, mediante un corretto governo, costituzionalmente orientato, dei principi giurisprudenziali in materia, condannando l’appellata AUSL al risarcimento del danno, per le conseguenze dell’errato intervento chirurgico, per la cifra totale di euro 49.313,28.

SENTENZA